Sull’amico Josko Gravner si è scritto molto; sui suoi vini, sulla sua persona, sulle sue spiazzanti scelte. Nonostante sia conosciuto da tutti gli intenditori, e presunti tali, di vino, il personaggio Gravner è da molti criticato non tanto per la qualità intrinseca del suo prodotto, con quel suo proverbiale gusto di vino ‘strano’, bensì per il suo costo. Di sicuro molti di questi il suo vino non l’hanno mai sfiorato, preferendo per lo stesso prezzo un banale Champagne, bevuto per moda o per ostentare conoscenza. Chi scrive il buon Josko l’ha conosciuto sulle colline di Ramandolo ospiti di un comune amico produttore, davanti ad una grigliata di pescato di Caorle. Era il lontano 1983, bevemmo ‘fiumi’ di Chardonnay e Ribolla dell’allora giovane Gravner. Nonostante oggi Josko abiuri quei vini fatti in acciaio, quel suo Chardonnay poco tempo dopo supererà ai punti in una degustazione alla cieca lo Chardonnay più famoso e costoso al mondo, il Montrachet della Romanee Conti. Il territorio, la cura della vite, l’uva e i suoi grappoli sono veramente figli di Josko. Lui non si è mai accontentato dei successi facili; i suoi vini fatti in acciaio andavano alla grande, i vitigni internazionali gli davano soddisfazione economica, ma presto si accorse che questi vini per quanto buoni non avevano anima. Agli inizi degli anni ’90 inizia allora l’esperienza di vinificazione in barriques, convinto che l’esempio francese fosse la strada da intraprendere. Il legno, sicuramente, oltre che per i gusti cedenti, si rivelava vaso vinario più naturale dell’inox. Iniziava così il suo personale percorso a ritroso, alla ricerca del ‘gusto perduto’, focalizzando nel frattempo sempre di più l’attenzione sui suoi vitigni autoctoni come la Ribolla, che col tempo diverrà l’unico Bianco da lui veramente amato. La ricerca e la tenacia sono per Josko termini di sfida con se stesso e al contempo restituiscono il rispetto assoluto per il suo territorio; l’obiettivo era a quel punto chiaro: fare un vino bianco che avesse la struttura e la forza di un grande vino rosso, premonitore di ulteriori, identitarie svolte. Il ’97 fu un anno decisivo per mirare a nuovi traguardi. Accadde che una famosa guida-rivista ai vini per mezzo di una sua altrettanto famosa penna emise una ‘sentenza’ che non dimenticheremo mai: «Gravner in caduta libera…». Questa critica, questo attacco senza se e senza ma, anziché frustrarne le convinzioni motivò ancor di più Josko, accettando a viso aperto la provocazione. Nel giro di pochissimi anni eccolo così già a ritirare un importante premio assegnatogli per lo stesso vino fatto alla stessa maniera. Sempre nel ’97 un’altra sostanziale svolta, ossia l’abbandono delle barriques e delle presse moderne, ripartendo da dove aveva iniziato suo padre, con la botte grande in rovere slavonia, la pigidiraspatrice, il torchio tradizionale. Anche la sventura dell’anno precedente, una poderosa grandinata, lo stimolò a ripartire dall’uva, dalla terra, dalla cantina… Fu anche l’anno in cui si rese conto che le sue scelte influenzavano eccessivamente, per imitazione, amici produttori, che rimanevano sconvolti da queste sue repentine variazioni di rotta. Lui sommessamente fece intendere ad ognuno di loro di farsi autonomamente il proprio percorso, senza stracciarsi le vesti a ogni singola tappa dell’evoluzione ‘filosofica’ del maestro. Seguire le proprie sensazioni, emozioni, il proprio e personalissimo legame con le radici era il suo consiglio primario, con nessuna verità assoluta in tasca. Seguire il proprio naso, il proprio gusto, la propria cultura senza ossessioni ispirative frustranti. Questo il suo unico consiglio. La botte grande (30/35 hl.) di rovere slavonia viene usata a tutt’oggi come vaso vinario, per affinamento e maturazione dei vini che vanno in bottiglia non prima di 7 anni, numero magico, ma ne parleremo più avanti, anche nell’economia sottile dei ragionamenti di Francesco Gravner. Dall’anno 2000, infine, la scelta irreversibile, forse definitiva: l’anfora di terracotta, sperimentata in sordina alcuni anni prima da Josko sostenuto dal figlio Mishca, con la netta sensazione di essersi avvicinato a quella cultura, a quelle terre, a quella storia che per prime diedero i natali al Vino, la Georgia e il Caucaso, teatro nella notte dei tempi di coloro i quali per primi vinificarono l’uva, per l’appunto in anfore di terracotta. 

www.gravner.it

Venezia News luglio, 2011

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